Psichiatria è accoglienza

04.01.2012 19:19

Su cosa sia o debba essere la psichiatria ai tempi nostri, fiumi di inchiostro hanno inzuppato montagne di carta, quindi è difficile dire ancora qualcosa che non sia già stato detto, ma forse si può ancora provare a ripetere qualcosa di semplice, qualcosa di ineludibile. Curare in campo psichiatrico vuol dire essenzialmente accogliere chi si rivolge a noi curanti. Questo accogliere significa sostanzialmente provare (noi curanti) a “disarmarsi” dei tanti orpelli tecnici e scientisti che la nostra cultura tecnocratica ci mette a disposizione e che invadono la nostra mente, quando siamo lì davanti ad una persona che ci chiede aiuto. Questo è –a mio avviso- il prerequisito per essere curanti in campo psichiatrico oggi. Bisogna fare spazio per l’altro, perché possa nella sua condizione di sofferenza trovare in noi qualcuno con cui parlare e non solo il medico, lo psicologo, il tecnico. Fare spazio per l’altro dunque è la prerogativa, il presupposto fondamentale dell’incontro. Quest’ultimo è quell’avvenimento che accade un po’ fuori dalla normalità, lontano dagli automatismi che guidano usualmente la nostra vita; contrariamente al solito nell’incontro terapeutico, non si dà nulla per scontato, tutto è interrogabile: ogni transazione, ogni modo di dire, ogni stereotipia gestuale o mimica. Occorre, come diceva Cremerius (grande psicoanalista tedesco scomparso nel 2001) “correre il rischio di un incontro”, senza questo, senza il tentativo di comprendere l’altro, non c’è cura. Ma ciò significa anche dare credito al paziente, prendere sul serio i suoi dolori, le sue domande anche se ci appaiono manipolatorie, perché forse quel modo di fare è l’unico (talvolta l’ultimo) che lui ha a disposizione per rivolgersi al mondo, magari per chiedere cose impossibili, non importa perché sta a noi trovare “risposte possibili a domande impossibili” come dice Sergio Erba, fondatore e direttore della rivista “Il Ruolo Terapeutico”. In altre parole, la cosa importante non è come il sofferente si rivolge a noi per essere aiutato, ma il fatto stesso che ci stia facendo una domanda d’aiuto; tutto il resto e cioè le “forche caudine” (più o meno ammantate di scienza, come i sistemi diagnostici sempre più standardizzati) che noi mettiamo per ripararci dalle domande dei pazienti, cosa che purtroppo accade ancora abbondantemente, sono balle, sono difese che denunciano le nostre paure irrisolte. In un campo come il nostro, continuamente sollecitato da stimoli che propongono modelli di intervento psichiatrico per lo più molto tecnicizzati, credo sia importante riconoscere che la prima ed insostituibile tecnica di lavoro coi pazienti è proprio il rapporto interpersonale. Prepararsi per lavorare in tale direzione e mantenersi capaci è per me la vera sfida che, come curanti, dobbiamo raccogliere. E sarebbe opportuno su questi argomenti discutere anche con la cittadinanza, gli enti di cura pubblici e privati, le istituzioni che organizzano i servizi, quelle che devono vigilare e le associazioni di familiari e volontari.